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LEGGENDO LEGGENDE.
LEGGENDO LEGGENDE.
News pubblicata il 09-11-2013
Era un’estate piovosa, a Buenos Aires. Me ne stavo chiuso in albergo alla Recoleta e guardavo una partita di calcio alla televisione. Nell’intervallo, il commentatore domandò all’esperto che l’affiancava, il portiere Fillol, campione del mondo nel 1978, di scegliere la sua Seleccion ideale, la nazionale argentina di tutti i tempi. Cominciò da se stesso, poi mise Ardiles, Tarantini, Olguin. La difesa si annunciava la stessa di quella vittoria. Poi arrivò l’eccezione: libero, invece di Passarella, Carlovich.
Il telecronista tacque, ma si intuì che aveva in mente la mia stessa domanda: «E chi cazz’è Carlovich?». Mai sentito prima. Chiamai Guillermo, un amico argentino, matto per il calcio, che lavorava all’ambasciata di Los Angeles e gli girai il quiz. Rispose: «Carlovich è una leggenda. Secondo me non è mai esistito. Se l’è inventato Osvaldo Soriano, ma non l’ha mai scritto, soltanto raccontato a voce e se lo sono tramandato». Una leggenda, nient’altro: El Trinche, la forchetta; il libero che segnava in rovesciata, l’uomo che rinunciò alla Nazionale per un pesce. Menotti dice che l’ha visto. Kempes che ci ha giocato insieme, Maradona una volta andò a Rosario e gli chiesero se si sentisse il più grande. Rispose, a modo suo: «Certo che sì, anche se qui ho scoperto che molti mi mettono dopo un certo Carlovich, io non l’ho mai visto, dove sta che lo dribblo?».
È da Rosario che bisogna partire per mettere insieme le tracce della leggenda. Ed è lì che la ricerca finirà, con la telefonata a un Carlovich, piastrellista, che si rivelarà fratello del Trinche e suo attuale datore di lavoro. Sul percorso, un paio di testimonianze eccellenti e incontrovertibili, la copertina con la sua foto della rivista Mìstica, una partita straordinaria che si poteva vincere una volta su 300 e un appuntamento col destino mancato senza rimpianti.
Mario Carlovich, slavo, arrivò in Argentina negli anni Cinquanta. Si stabilì a Rosario, in un rione chiamato «11 settembre» e lì trovò lavoro come idraulico. Sposò una ragazza del posto ed ebbero sette figli. L’ultimo: Tomas Felipe, detto Tomasito. Giocava scalzo nei vicoli, come da oleografica tradizione e, assicurano, faceva squadra da solo. Il più scettico sulla leggenda che lo circonda è proprio lui. Dice: «La gente di Rosario ama raccontarsi storie, ha costruito un mito, partite che avrei deciso, discese palla al piede da un’area all’altra con gol finale e poi le rovesciate, una, due, dieci…Non so, qualcosa ricordo di aver combinato, ma non tutta quella roba lì».
A occhio, ha ragione la gente di Rosario. Non c’è un video per dimostrarlo: negli Anni Sessanta in Argentina si filmavano poche partite e non certo nelle serie minori dove pascolava El Trinche. Ma ci sono le fotografie. E in quelle, Carlovich ha proprio la faccia da leggenda, perfetto per la parte: un cocktail con un terzo di Meroni, un terzo di Sollier e un terzo di Vendrame. Immaginatevelo: la maglietta aveva i bottoni sul davanti e lui ne infilava nell’asola uno soltanto, giocando a petto scoperto. Capelli lunghi, barbona, calzettoni (c’è bisogno di dirlo?) arrotolati alla caviglia. Uno così lo fai giocare libero, in tutti i sensi, o lo mandi a casa. Il primo allenatore della sua carriera, chiamato non a caso Ignomiriello, optò per la seconda ipotesi e gli concesse appena due partite nel campionato di serie A del 1969 con la maglia del Rosario Central, poi lo spedì in terza divisione, a Cordoba.
Rancori, Tomasito? «Mannò, Ignomiriello preferiva un altro tipo di calciatore, uno che stesse al suo posto, io… andavo e venivo. Più spesso stavo… a casa. Ignomiriello veniva a prendermi per portarmi agli allenamenti… bussava da buttar giù la porta… a me piaceva dormire».
Ma non in campo. Lì, dice uno che l’allenò un giorno solo, Carlos Griguol: «Faceva cose che, dopo, ho visto solo a X-Files». Quando il Cordoba andò a giocare contro il Los Andes, El Trinche dimenticò i documenti e non fu autorizzato a giocare. Si presentò allora all’arbitro un dirigente del Los Andes e disse: «Garantisco io, garantiamo noi, quello è Carlovich». L’arbitro annotò, perplesso, poi chiese: «Perché ci tenete tanto, se è forte come dicono, va a vostro svantaggio…». Il dirigente, Josè Tarilo, rispose senza esitazioni: «Lo facciamo per il nostro pubblico, è l’unica occasione che ha per vederlo…».
La grande occasione di Carlovich arrivò, invece, il 17 aprile del 1974. La Nazionale argentina si preparava ai Mondiali di Germania e affrontò in amichevole una selezione di giocatori di Rosario. Tra questi, un astro nascente: Kempes. E un 25enne mai sbocciato: Carlovich. Lo aveva convocato Carlos Griguol, quello che lo guardava come un telefilm di fantascienza. Uno di serie C contro la Nazionale. Vinse da solo (con un pizzico di Kempes). Finì 3 a 1. Segnò di rovesciata, assicurano. Lui dice: «Non mi ricordo. Ricordo che gli altri erano nervosi, ci insultavano perché non riuscivano a giocare… Boh… A me riusciva tutto facile… Che ti devo dire, la giocassimo altre trecento volte le perderemmo tutte, ma abbiamo giocato solo quella lì e l’abbiamo vinta noi».
César Luis Menotti, seduto in tribuna, si segnò quel nome. Quando gli diedero la panchina della Nazionale, se ne ricordò. Organizzò, nella lunga strada che portava ai Mondiali 1978, una «preselezione», una sorta di squadra B per provare più giocatori, e lo chiamò. L’incontro era a Buenos Aires. Tomas Felipe Carlovich, figlio di un idraulico slavo, incapace di stare al proprio posto, in campo e nel mondo, partì con una valigia e una canna da pesca. Si fermò sulla costa e gettò la lenza. I pesci abboccarono, non si presentò mai alla convocazione.
È tutto lì, nel modo semplice in cui lo dice: «I pesci abboccavano, non sono mai arrivato a Buenos Aires».
Poteva rubare il posto a Passarella, trovare un ingaggio all’estero, diventare campione del mondo con Kempes, giocare con Maradona, diventare ricco, felice…
«Ci sono riuscito lo stesso, ho avuto i miei momenti, stare là a pescare mi rendeva contento, come un gol… Non so… Io sono stato sempre così, un solitario, a Cordoba preferivo cambiarmi da solo in magazzino, invece che con gli altri nello spogliatoio… Forse ero più un pescatore che un calciatore».
Menotti non concorda: «Era un calciatore come pochi, ma non accettava compromessi. È assurdo che abbia giocato solo quattro partite in serie A, ma ebbe infortuni e voglia d’altro, soprattutto quello: di che cosa, solo lui può saperlo».
Passò al Colon di Santa Fe, giocò le sue due ultime partite in serie A, s’infortunò, tornò a Cordoba, si ritirò a 34 anni, con un curriculum da mezza tacca e una leggeda da extra-terrestre. Mai avverata. Ufficialmente, per colpa dei pesci. In realtà, per scelta. Non avessero abboccato, avrebbe trovato una donna, una ruota da bucare, un treno da perdere, un qualsiasi ostacolo per salvarsi dal proprio talento, facendone l’uso più alto e gioioso: lo spreco.
Quelli di Mìstica l’hanno definita la domanda da un milione di dollari: «Carlovich, perché non è mai arrivato?»
Risposta del campione che non c’era: «Che cosa significa arrivare? Io volevo solo giocare a pallone e stare con le persone che amo e loro vivono tutte qui, a Rosario».